Diario di Viaggio

La mano dell’uomo che può distruggere il mondo – Il lago di Aral

Ammetto la mia ignoranza, del Lago di Aral, prima di andarci, non avevo mai sentito parlare. Non avevo avuto tempo di studiare per bene l’itinerario proposto, avevo un po’ prenotato al buio e di questa parte del viaggio sapevo solo che sarebbero stati “due giorni nel deserto” e avremmo dormito in Yurta, che è sempre stato uno dei miei sogni. Insomma, tutto pensavo fuorché un’esperienza tanto provante emotivamente (forse anche un po’ fisicamente).

Credo non ci sia stato ancora luogo che mi abbia inquietato di più, perché quello che credevo sarebbe stato un “deserto” in realtà è il fondo di un lago.

Un po’ di storia

Il Lago di Aral è (o forse dovremmo dire, “era”) un lago salato al confine tra l’Uzbekistan e il Kazakhistan. Si trova nella regione indipendente del Karakalpakstan, dove l’influenza della passata dominazione russa è ancora fortissima. Il dato non è casuale,Aral Sea perché la responsabilità del prosciugamento del lago si rifà a una decisione sovietica, quella di rendere la regione un’immensa piantagione di cotone, tra le monocolture più invasive. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, in poco più di sessant’anni il lago si è ridotto al 10% della sua dimensione originaria, diviso in due diversi laghi il “Piccolo Aral” in territorio Kazakho e il “Grande Aral” che è appena una striscia di acqua salata in territorio Uzbeko. Del restante 90% rimane un immenso deserto salato, reso tossico dai potenti diserbanti chimici usati per far spazio alla monocoltura del cotone. In parole povere, un gravissimo disastro ambientale, forse il più grave mai perpetuato da mano umana.

Un disastro che si ripercuote sui villaggi di pescatori del Karakalpakstan, ritrovatisi improvvisamente a centinaia di chilometri dalla costa del lago, le cui acque residue, fortemente saline e inquinate, sono destinate a scomparire del tutto a causa del forte processo di evaporazione a cui sono sottoposte. Sono molteplici i tentativi di salvare ciò che resta, con la creazione di oasi protette o i tentativi di nuove piantagioni resistenti al clima ostile. Il “Piccolo Aral” in Kazakhistan è stato separato con una diga dal resto del lago, di modo che le acque residue non si disperdano, e ha visto un lieve innalzamento del proprio livello. Forse rimarrà unico testimone di quello che è stato il quarto lago oceanico più grande al mondo.

Piccola oasi del Lago d’Aral in territorio Uzbeko

Tagliando il deserto

La spedizione del Lago di Aral parte da Nukus, inquietante città di stampo sovietico dove ci è stato persino caldamente sconsigliato di girare a piedi. A bordo di jeep a gasolio (eu de perfume di quei due giorni) attraversiamo la “ridente” campagna Uzbeka fino alla città di Moynaq, dove ci imbattiamo di fronte al primo traumatico panorama: relitti di nave in mezzo al deserto, ritrovate sul fondo del lago e organizzate in un inquietante cimitero di metallo arrugginito. Inutile dire quanto straniante sia stato ritrovarsi lì, quando l’acqua non la si vede neanche col binocolo da ore.  Hai la certezza che quella che stai calpestando non è terra, lo vedi dalle conchiglie ancora incastonate nella sabbia che ti brucia gli occhi e la gola. Sei su un fondale.

Il cimitero delle navi di Moynaq
La paradossale immagine di una mucca all’ombra di una nave

E lo saremo per ore, ore e ore di guida in mezzo al nulla, tra canyon prosciugati, villaggi fatiscenti, arbusti secchi e una foschia perenne che ti secca il naso e le guance. Non c’è niente, non c’è nulla da vedere per ore, ma è un nulla che grida, un nulla che ti fa sentire piccolo e insignificante. Così all’infinito, fino al tramonto. Solo allora, finalmente, riusciamo a raggiungere quella lingua di mare che è il “Grande Aral“. La terra ricoperta da una crosta di sale scricchiola sotto le suole, non c’è un arbusto, non c’è un pesce, non c’è nulla.

La sabbia sulla riva lacustre ricoperta da uno strato di sale
Ciò che resta del “Grande Aral”

Nessuna parola potrà mai spiegare quel senso di nulla assoluto, il guidare per una giornata intera sul fondo di un lago per raggiungere appena una lingua di mare malata. Una lingua di mare che forse, quando riuscirò a tornare, non ci sarà più.

Fa male al cuore.

Ma non siamo soli, qualcuno c’è. Qualcuno che, in questo mare di tossicità ci fa il bagno. Turisti.
Russi, ovviamente.

Perché il Lago di Aral dovrebbe farci riflettere

Vedere con i propri occhi cosa la mano dell’uomo può fare al mondo è stato un colpo in pieno petto, quasi qualcuno mi avesse tenuto la testa rivolta all’acqua e mi abbia sussurrato: “guarda, guarda di cosa siamo capaci“.

Quelli che furono gli argini del lago visti dal “fondale”.

Nessuna calamità ha distrutto quell’ecosistema, siamo stati noi. Voi mi direte “eh ma i russi, eh ma le colture intensive“, sì, ci sono dei colpevoli naturalmente, forse la tragedia non si poteva evitare, ma perché si giunge a questo? Perché si arriva a devastare il mondo pur di avere un metro di tessuto in più? Che possiamo fare noi oltre a vederci morire il pianeta intorno? L’unica cosa che possiamo: il nostro massimo. Non mi importa se per te che leggi il massimo è diventare vegano, rattoppare dei jeans prima di gettarli, avere una borraccia al posto delle bottiglie usa e getta, non mi importa quale sia il livello di sforzo a cui sei disposto, basta che inizi, inizia adesso. Siamo così tanti, non diamo sempre la colpa a chi sta sopra di noi, perché se nessuno consumasse il superfluo non ci sarebbe superfluo. Ha senso? Sto parlando di un’utopia? Non so, forse è solo uno sfogo fine a sé stesso, ma sono sicura che ciò che ho visto in Uzbekistan mi farà rivalutare alcune scelte.

Anche dovesse servire a nulla.

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